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Non si parla mai liberamente della vergogna e si tende ad ignorarla o a temerla, sia perché testimonia la propria debolezza, sia perché giudicata prevalentemente secondo una tradizione legata alla morale cristiana.
La vergogna è un’emozione penosa, complessa e multiforme: essa implica il sentirsi esposti e considerati privi di dignità e di valore, il sentirsi inferiori, con la paura di essere valutati negativamente.
Il provare tale emozione rende l’individuo cauto nello svelarsi, timido, imbarazzato, e, a volte, eccessivamente consapevole, seppure erroneamente, delle proprie mancanze.

Se volete sapere perché non ho detto nulla, vi basterà cercare ciò che mi ha obbligato a tacere. Le circostanze dell’evento e le reazioni di chi mi è stato accanto sono state ugualmente responsabili del mio silenzio.
Se vi dico cosa mi è successo, non mi crederete, riderete, prederete parte all’aggressore, mi farete domande oscene, o, peggio ancora, avrete pietà di me.
Qualunque sia la vostra reazione, mi basterà dirlo per sentirmi male sotto il vostro sguardo.
Tacerò dunque per proteggermi, mostrerò solo la parte della mia storia che siete capaci di sopportare.
L’altra, quella tenebrosa vivrà in silenzio nei sotterranei della mia personalità.
Questa storia senza parole governerà la nostra relazione perché nel mio intimo mi sono fatto discorsi non condivisi e racconti silenziosi, continuamente. – Boris Cyrulnik, La vergogna, 2010.

Si riescono più facilmente a condividere altre emozioni, come la rabbia, la gelosia, la tristezza, la felicità, ed i fatti ad esse correlati, ma quando si tratta di vergogna è come se all’improvviso si diventasse muti: ci si sente nudi, si vorrebbe sprofondare, fuggire lontano, dove nessuno può vedere e giudicare.

Dare parola alla propria vergogna comporterebbe ancora vergogna, un’ulteriore ed insopportabile umiliazione.

Dal “silenzio alla parola” perché chi soffre in modo debilitante ed estremo di vergogna, in psicoterapia deve affrontare un viaggio di consapevolezza e liberazione, in cui i primi importanti cambiamenti appaiono nel momento in cui la persona inizia a parlare della propria vergogna, vergognandosi.
Simile ad un peccatore che si confessa e che nello stesso momento raggiunge la sua redenzione. Una redenzione che non è data dal pentimento, ma dall’affermazione della propria autentica identità.

Spesso l’esordio si ritrova in adolescenza, età in cui la vergogna sembra essere un’emozione comune, veicolo di crescita e di acquisizione di identità, piuttosto che blocco all’identità. Ma in alcuni casi la vergogna può diventare tanto insostenibile, da non potersi trasformare in fierezza della propria diversità ed unicità.

La persona può venire in terapia lamentando una forte ansia sociale, o fobia sociale, la cui emozione centrale è proprio la vergogna, unitamente alla ricca sintomatologia psicofisica a cui essa si accompagna, tanto da poter parlare di una vera e propria “sindrome della vergogna”.

Prima che la persona possa dar parola al proprio profondo disagio, spesso sono i sintomi a parlare di lei e per lei, difendendola da situazioni sociali angoscianti, in cui potrebbe sperimentare il fallimento nel presentare una buona immagine di sé. Spesso la persona è infatti animata da un grande desiderio di dare una buona impressione di sé agli altri, paventando costantemente il loro sguardo e giudizio, la cui sentenza potrebbe svelare la sua fragilità, inferiorità e diversità.

Spesso chi si vergogna tende a specializzarsi nel celare nel silenzio le sue emozioni e desideri, tenendo sotto continua osservazione se stesso e l’ambiente circostante: per poter captare gli elementi a cui adeguarsi e le aspettative a cui aderire, al fine di essere apprezzato ed accettato. Non si riesce a sopportare il peso del “non piacere” e del “deludere”, tanto da non poter mai dar voce ai propri reali desideri ed esigenze, tanto da non poter mai correre il rischio di esprimere se stessi.

Su di sé viene esercitato un controllo tale, da arrivare al punto di dimenticare essi stessi chi si è, cosa si vuole e cosa si desidera. Ci si può ritrovare “senza punti di riferimento stabili” perché si delega agli altri il proprio “essere al mondo” e, senza gli altri, non sa più chi poter “essere”.

Ed è la vergogna a muovere i fili di un teatro fittizio, a dettare il copione di uno stile di vita che limita la propria libertà di agire e di essere, con se stessi e gli altri. Queste persone, molto sensibili alle critiche, sembrano essere totalmente anestetizzate ai complimenti, poiché questi non vengono percepiti mai come diretti al proprio autentico sé, ma alla propria fittizia “maschera sociale”.

In terapia, il dolore di queste persone è evidente nella logorante intensità e disarmante: si vergognano di chi veramente sono e si sentono in colpa di chi falsamente mostrano agli altri. Sembrano trovarsi “senza via d’uscita” perché il loro Sé autentico sarebbe disprezzato e abbandonato, mentre il loro falso Sé non arriva neppure a rischiare un reale abbandono, perché non può costruire neppure un reale legame.

Non ci può essere un “Io senza un Tu” e non ci può essere neppure un “Tu senza un Io”. La solitudine è il prezzo da pagare.
Solitudine, senso di colpa, vergogna e un pervasivo complesso di inferiorità si mischiano e si confondono in persone sofferenti per l’inammissibilità di essere sincere, di essere se stesse, perché se ne vergognano.

La vergogna le sta conducendo pian piano ad una sorta di alienazione nei confronti della comunità e della loro forza vitale, che viene repressa e chiusa nella sua prigione interiore.

La vergogna nasce dal “voler piacere agli altri” e dal “sentirsi diversi dagli altri”, unitamente ad altri da sé considerati superiori. Tramite una nociva generalizzazione, gli altri sono migliori anche solo perché possiedono caratteristiche diametralmente opposte alle loro e che sono giudicate da loro stessi deboli e fallibili.

Il complesso d’inferiorità può essere pervasivo, come pure il senso di colpa, e la stanza di psicoterapia si trasforma quasi in un confessionale, ove non è il pentimento la via della redenzione, ma lo è la dichiarazione delle propria vergogna che ha in seno la rivelazione dell’autentico Sé.

La vergogna dovrebbe avere una funzione sociale e comportamentale utile, esattamente come il senso di colpa o la paura, che guidano le nostre azioni, salvaguardando noi stessi, la relazione e l’altro. Ma quando fin da bambini si è accusati di far soffrire i genitori perché non si è come loro vorrebbero e ci si sente responsabili delle loro continue svalutazioni, allora la colpa e la vergogna perdono la loro valenza sociale ed iniziano ad installarsi nel corpo e nell’anima del bambino come un succo che avvelena l’anima.

Lo stile di vita si struttura su ciò che vogliono gli altri e non anche su questioni di propensioni individuali, guidate dal sentimento sociale. I genitori, focalizzati su se stessi, con uno stile educativo scoraggiante ed umiliante, non sono in grado di riconoscere e sostenere tali potenzialità, guidando il bambino verso una sana espressione di sé e del Sentimento sociale.

Risultato è che presto il Sé, chiuso nell’ombra, viene dimenticato dalla persona stessa e in quell’ombra giudicato oscuro e temibile. Presto vengono dimenticati i desideri e con essi ci si dimentica di sé: tutto è per l’altro, in un gioco camaleontico in cui il “non essere visto” è sia la salvezza che il martirio.

La spinta aggressiva all’affermazione di sé e al superamento del sentimento d’inferiorità viene privata della sua naturale utilità ed è incanalata al servizio di “come gli altri mi vogliono”, al servizio dell’ottenimento dell’amore e dell’approvazione dei genitori o delle figure significative incontrate nel percorso evolutivo.

Come una caccia alle streghe, tutta la creatività è convogliata nell’inventarsi un ruolo che possa nascondere quell’identità giudicata debole, sbagliata e di cui ci si vergogna. E alcune di queste persone diventano, loro malgrado, molto abili a nascondersi dietro maschere, troppo abili, arrivando a perdere se stesse che forse non hanno mai trovato, perché rinnegati dalla propria mano e giudizio.

Perché la vergogna permane poi nello sviluppo, nell’adolescenza e nell’adultità, non tanto per il giudizio che gli altri hanno dell’individuo, ma per quella qualità di sguardo introiettata, che si teme poter intravvedere negli occhi altrui, ignari del meccanismo di proiezione in atto.

La vergogna di esistere e il complesso di inferiorità diventano allora compagni fedeli che non mollano la presa, finché qualcuno di cui ci si fida riesce a vedere con chiarezza chi si è e a comprendere con amore chi si è. Perché se una colpa reale richiede perdono, espiazione o riparazione; un senso di colpa riconoscimento ed elaborazione dell’assenza di colpa; la vergogna, in taluni casi, richiede solamente di essere compresa con amore e trasformata da un nuovo sguardo.

Ho scelto come titolo, “La vergogna: dal silenzio alla parola“, poiché i temi legati alla vergogna sono complessi e difficili da riconoscere: la persona stessa, provando vergogna, non può renderli visibili neppure agli occhi del terapeuta. E le trappole della vergogna si frappongono all’elaborazione della vergogna stessa.

Il paziente non ne può parlare agevolmente e si trova a recitare una parte anche davanti allo psicoterapeuta che, ancor più in questi casi, deve sentire il paziente più con il cuore che con la mente, rischiando di provare lui stesso quella vergogna, che va a richiamare e sollecitare una vergogna personale, spesso dimenticata, del terapeuta stesso.

Motivo per cui anche l’analisi personale dello psicoterapeuta deve lavorare su questo groviglio di emozioni complesse, provate nella loro gravosità, almeno una volta nella vita, e probabilmente ricacciate in quella scatola dell’inconscio, la cui dicitura dell’etichetta recita le parole: “Come sono stato e come non devo più essere”.

E in quella scatola della vergogna provare a rivalutarne il contenuto, non più come segno indelebile di debolezza ed impotenza, ma come segno di unicità ed interezza, ove la diversità è sinonimo di ricchezza e non più di vergogna.

Ed allora forse, aprendo noi stessi, psicoterapeuti, quella scatola, grazie alle vibrazioni sottili che risuonano nella relazione terapeutica, offrire la chiave di quell’apertura anche al paziente, permettendogli di passare “dal silenzio alla parola”.

Perché per “confessare la propria vergogna” bisogna aver già in parte superato la vergogna, e riuscire a sostenerla durante l’intero racconto, in cui la persona rimane avvolta da altri innumerevoli strati di vergogna, finanche la vergogna di vergognarsene.

“Rischiare la vita per la vita”, è ciò che il paziente deve fare e ha bisogno di essere rincuorato ed incoraggiato nel fare il passo più pericoloso e vitale della sua vita: per uscire da quell’isolamento sociale mortifero che elude il Senso dell’Esistenza.

Dott.ssa Nicoletta Alberta

Psicologa Psicoterapeuta

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